Regalati allo stato i sei mesi di arretrati del 2015 per il 2016 e il 2017 meno di dieci euro netti e per il 2018 gli aumenti tabellari sono inferiori agli 85 euro promessi.
Infine i lavoratori fanno solidarietà al Governo.
Prima di esaminare la parte economica della preintesa di rinnovo contrattuale, firmata il 23 dicembre scorso, è utile conoscere il punto di partenza delle retribuzioni dei dipendenti pubblici italiani fino alla sentenza della Corte Costituzionale del 2015, che ha dichiarato illegittimo il blocco contrattuale durato cinque anni e mezzo, così da sfatare alcuni luoghi comuni che possiamo leggere sui giornali o sentire nei notiziari radiotelevisivi ogni giorno.
Se esaminiamo i dati OCSE, scopriamo che le retribuzioni della dirigenza di prima fascia sono le più alte tra i Paesi industrializzati e che per i dirigenti di seconda fascia la situazione non si discosta granché. Già a partire dai cosiddetti “professionals” e dagli insegnanti di scuola secondaria, invece, le retribuzioni scendono fortemente sotto la media OCSE, per calare ancora riguardo a funzionari e impiegati.
A fronte di questa situazione, il numero dei dipendenti pubblici in Italia è sotto la media OCSE e, in percentuale rispetto alla popolazione attiva, è meno della metà di quello dei paesi scandinavi, quasi la metà di quello francese e molto inferiore alle percentuali che si registrano sia in Gran Bretagna che in Irlanda.
Il contratto avrebbe dovuto ridare un po’ di fiato alle retribuzioni in un settore che negli ultimi sei anni ha perso quasi mezzo milione di posti di lavoro.
Invece, il primo effetto economico della preintesa firmata da CGIL, CISL, UIL e UNSA è il volatilizzarsi di sei mesi di arretrati, relativi al 2015, che la sentenza della Corte Costituzionale, ottenuta dalla FLP contro il blocco illegittimo dei contratti pubblici, aveva affermato spettare ai lavoratori.
Ma non è che per gli anni successivi la preintesa abbia previsto cose migliori: intanto, come da noi sempre affermato, con l’accordo tra Governo e sindacati firmato il 30 novembre 2016 si è rinunciato, di fatto, agli arretrati per il 2016 e il 2017, tanto che gli stessi ammontano a circa 15 euro medi pro-capite mensili, insomma una miseria.
E per il 2018? Ecco, nemmeno per il 2018 gli 85 euro mensili sbandierati dai sindacati e dalla stampa “di regime” si vedranno. Così come si sono rivelati una bufala (oggi si direbbe fake news) i proclami sulla “piramide rovesciata” per la quale chi prendeva meno avrebbe avuto di più o, ancora, sul mantenimento del bonus Renzi con soldi freschi a carico dello Stato.
Gli aumenti tabellari sono, infatti, stati determinati verso il basso e cioè nel comparto Ministeri, nel quale la più bassa massa salariale ha dato origine a un aumento medio a regime di circa dieci euro inferiore agli 85 euro promessi. A cascata, gli stessi aumenti vanno sia alle Agenzie Fiscali che agli Enti Pubblici Non Economici, che hanno la massa salariale più alta rispetto ai ministeriali. Per i Ministeriali l’aumento si ferma lì mentre per Agenzie e EPNE la differenza di massa salariale porta qualche spicciolo ulteriore nei fondi di salario accessorio, con un danno ulteriore per i lavoratori, che si vedono parte degli aumenti convogliati in voci stipendiali che scontano altre storture presenti nellla preintesa contrattuale.
Infatti, “grazie” a questo contratto, il salario accessorio andrà a finanziare il welfare aziendale anche in quei settori in cui storicamente questo era a carico delle amministrazioni o è destinato per pagare le posizioni organizzative, che servono alle amministrazioni e che però (articolo 77, comma 1 della preintesa) non solo continuano ad essere a carico dei lavoratori, ma, come recita la preintesa, i fondi “storici” (le posizioni pagate negli anni precedenti) vengono sottratti a monte alla contrattazione, in modo tale che queste potranno diminuire solo se lo decidono, unilateralmente, le varie amministrazioni, giacché non vi è più alcun potere di contrattazione.
E veniamo alla beffa: i lavoratori che fanno solidarietà al Governo. Come tutti ricorderanno, uno dei problemi che si era posto in sede di contrattazione dei fondi con il Governo era come rendere compatibili gli 80 euro del “bonus Renzi” con gli aumenti contrattuali, per evitare che gli aumenti per i lavoratori che percepivano stipendi al limite delle soglie previste per l’accesso agli 80 euro non si risolvessero in una partita di giro. Era stato promesso dai sindacati firmatari la salvaguardia degli aumenti contrattuali che dovevano essere finanziati da fondi freschi e aggiuntivi. Nulla di tutto ciò! Infatti nonostante l’intervento legislativo fatto dal Governo in Legge di Bilancio 2018 che ritocca solo leggermente gli scaglioni per accedere al bonus, per i colleghi che per effetto degli aumenti supereranno le soglie previste per l’erogazione degli 80 euro è previsto solo un contributo di solidarietà di 20 euro al mese e solo per il 2018. Dopo … “chi ha avuto, ha avuto… e chi li perde pazienza!”.
La cosa più assurda è che quei circa 20 euro non ce li sta mettendo il Governo con soldi freschi bensì i lavoratori, i cui aumenti a regime non partono a gennaio 2018 bensì da marzo proprio per pagare l’Elemento Perequativo (così hanno chiamato l’elemosina – art. 75 della preintesa).
Insomma, i lavoratori pubblici suppliscono alla mancanza di stanziamenti e fanno solidarietà… al Governo!
Pensiamo che basti quest’ultima stortura per dare un giudizio definitivo su questa preintesa contrattuale.
La Segreteria Generale FLP